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Wingsuit

La tuta alare o wingsuit in inglese
è un invenzione dell'ingegno umano
che permette di volare con il proprio corpo,
proprio come immaginano i bambini.

Come è fatta una tuta alare?

Una tuta standard è costituita prevalentemente da nylon, altre parti possono essere in mylar, spandex, neoprene, cotone. Pesa circa tre, quattro chili, ma con i materiali ultralight il peso scende della metà.
La tuta alare funziona a dovere quando è pressurizzata, quando cioè si gonfia e assume un vero profilo alare, con la base piatta (la nostra pancia) e la parte sopra concava. Questo dà origine alla forza chiamata portanza che, agendo sulle velocità diverse che l’aria assume per passare sotto e sopra l’ala, spinge verso l’alto. Una tuta si pressurizza facendo entrare l’aria da due bocche sulle ali, una per ogni braccio, e due sull’ala di coda. Le due superfici distinte, superiore e inferiore, sono separate da un numero variabile di celle, come a formare tante strisce singole che poi, una volta pressurizzate, costituiscono il profilo alare.

Come si indossa una tuta alare?

Grazie a numerose zip che corrono lungo le braccia e le gambe. I piedi vengono inseriti nei cosiddetti booties, una parte più rigida della tuta nella quale si infila il piede con tutta la scarpa. Dietro alla schiena si trova il paracadute, fondamentale per l’atterraggio.

Che tipi di tute alari esistono?

Esistono numerosi tipi di tuta alare, a seconda dell’esperienza di ognuno e degli obiettivi che si vogliono raggiungere. La beginner suit è molto piccola, con ali di dimensione ridotta sia per le braccia che per le gambe. Poca potenza ed efficienza, ottima per iniziare. La intermediate suit, che può essere indirizzata verso prestazioni di volo pure (velocità o galleggiamento) o verso il mondo dell’acrobatico, permette infatti di volare sottosopra, con la schiena verso la terra oppure a testa in giù. Infine la big pro suit, la più utilizzata, soprattutto nel mondo del BASE, per la sua capacità di volare molto e per la velocità, che è un fattore di sicurezza, perché accumula energia spendibile in manovre di emergenza, e perché può volare più lontano, consentendo atterraggi comodi a fondo valle. Ovviamente queste tute richiedono molta esperienza perché sono le più potenti.

 

Marco Milanese Adventures

Quanto vola una tuta alare?

Una tuta alare moderna grande ha una media di glide, cioè di planata, che si attesta intorno ai 2,5-3. Vuol dire che per ogni metro di caduta verticale si avanza di 3. Per avere un paragone: un aliante ha un glide tra 30 e 50, un deltaplano tra i 10 e i 30, un parapendio sotto i 10.

Quanto va veloce una tuta alare?

Con le tute alari si possono raggiungere velocità ben superiori ai 200 chilometri orari, ma generalmente si viaggia tra i 160 e i 200 chilometri orari; è anche possibile volare molto più lenti, aumentando il tempo di permanenza in aria, ma riducendo le prestazioni in termini di distanza.
Tutte le linee di volo vicine al terreno che si vedono nei video su internet avvengono in picchiata: vuol dire che si ha un margine per uscire dalla linea verso l’alto perché, più si è lanciati verso il basso, maggiore energia si accumula poi per staccarsi dal suolo nel momento del bisogno e per preparare l’atterraggio con paracadute. Velocità vuol dire sicurezza, volare lenti porta a precipitare.

Da dove è possibile saltare?

Il salto con la tuta alare da una montagna richiede alcuni elementi: una parete verticale di almeno 100 metri di altezza e un terreno ripido, perché, ricordiamolo, una tuta alare non vola ma plana, quindi scenderà sempre, con diverse caratteristiche a seconda delle condizioni meteo, della tuta e, non ultima, dell’abilità del pilota.

Come si pilota una tuta alare?

Pilotare una tuta richiede l’uso di tutto il corpo: con le braccia e le spalle si può curvare; con il bacino inarcato o concavo si ottiene il “livello” ovvero la capacità di galleggiare o sprofondare; le gambe regolano la velocità, a seconda di quanto vengono stese o piegate, dando più o meno potenza all’ala di coda. In generale, tuttavia, si pilota con tutte le parti del corpo, a partire dalla testa. La verità è che si diventa un tutt’uno con la tuta e che ogni movimento influenza il volo.

Marco Milanese Adventures

scopri i dettagli della tuta alare

La storia del BASE jump e della tuta alare

Il sogno di volare è vecchio come l’uomo, Leonardo da Vinci lo ha fatto sembrare possibile. Diceva: «Quando camminerete sulla terra dopo aver volato, guarderete il cielo perché là siete stati e là vorrete tornare». Ne so qualcosa.
Dopo alcuni esperimenti settecenteschi finiti in tragedia, all’inizio del Novecento il paracadute si diffonde per uso militare. Mi piace ricordare una donna, Georgia Broadwick, che è stata pioniera di questo sport realizzando un sistema tuttora utilizzato per alcuni tipi di lancio.
I primi lanci erano “vincolati”: il paracadute era collegato al velivolo con una fune che lo apriva non appena usciti dal portellone. Poi si passò alle cadute libere: il paracadute stava dentro a un contenitore azionato da maniglie durante la caduta.
Nel 1952 il paracadutismo diventò uno sport. I materiali si evolsero, nacque il paracadute di emergenza o riserva.
Nel 1964 Domina Jalbert brevettò il primo parafoil, un paracadute non più tondo bensì quadrato, dal profilo alare, con bocche d’entrata per l’aria. Fu una svolta. Il vantaggio era la pilotabilità: tirando la fune di destra si girava a destra, così per la sinistra, tirandole entrambe si frenava, riducendo la velocità all’atterraggio, proprio come si fa oggi.
In parallelo con i lanci dagli aerei, si fecero strada anche gli esperimenti dei salti da strutture fisse. Nel 1906 l’inglese Bobby Leach saltò dal Raimbow Bridge, il Ponte Arcobaleno fra le cascate del Niagara, atterrando in acqua. Nel 1912 Frederick Law saltò dalla torcia della Statua della Libertà: il paracadute era però ancorato al monumento, non si trattava di una vera caduta libera. Nel 1914 lo slovacco Štefan Banicˇ costruì e testò un prototipo di paracadute lanciandosi dal quarantunesimo piano di un edificio di Washington. Tra il 1917 e il 1930 ci furono i salti dai ponti americani e uno compiuto dalla sella di una motocicletta lanciata su uno strapiombo di più di 300 metri. Nel 1965 Erich Felbermayr saltò per la prima volta dalle Dolomiti lanciandosi dalla Cima Piccola di Lavaredo. Nel 1966 l’austriaco Wolfgang Weitzenböck si buttò dalla Rotwand e Bryan Schubert e Mike Pelkey da El Capitan in California. Entrambi si procurarono infortuni all’atterraggio a causa del vento forte e perché usavano paracadute tondi.
Nel 1975 Owen J. Quinn compì il primo salto dal World Trade Center a New York, dove era salito fingendosi un impiegato, con il paracadute nascosto in una borsa coperta di attrezzi. Riuscì a raggiungere il tetto e a saltare, ma venne arrestato immediatamente e costretto a due visite psichiatriche. Alla fine fu multato più volte, ma niente di più.
Gli esperimenti continuarono fino al 1978, data della nascita del BASE jumping, acronimo che indica punti fissi da cui saltare con il paracadute: B per buildings, A per antennas, S per span e E per earth, ovvero edifici, antenne, ponte e terra, intesa come montagne.
Purtroppo (o per fortuna, chissà), le informazioni sui salti erano frammentarie e difficili da reperire, perché la trasmissione delle informazioni era stata spesso orale e perché si trattava spesso di salti al limite del lecito, oppure del tutto vietati.
Nell’estate del ’78, Carl Boenish, considerato il padre del BASE jumping, Phil Smith, Phil Mayfield e Jean Boenish saltarono da El Capitan con i Ram-Air Parachute, paracadute di forma rettangolare e direzionabili, che possono essere manovrati e rallentare la caduta. Jean, moglie di Carl, diventò la prima donna BASE jumper della storia.

Grazie alle tecniche sviluppate da questi pionieri e ai nuovi materiali, il BASE jumping cominciava a essere considerato uno sport: il salto infatti poteva essere replicato secondo regole che andavano via via precisandosi e quindi con criteri di sicurezza molto più stringenti, non era più uno stunt una tantum appannaggio di pochi temerari.

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Nel 1981 nacque BASE Magazine, una rivista che dapprima registrava solo i salti dalle rocce ma poi incluse tutti i tipi di salto, e nacque la numerazione ufficiale dei partecipanti a questo nuovo sport. Chi infatti aveva saltato almeno una volta dai punti fissi dell’acronimo otteneva il “BASE number”. Phil Smith divenne il numero #1 e Carl Boenisch il #4. Questo tipo di classificazione è ancora attiva, anche se ha perso sicuramente di interesse nella comunità. Io stesso, pur avendo saltato da tutti i punti fissi, non mi sono mai registrato. Attualmente il numero degli iscritti si avvicina a #2500, ma è veramente difficile dire quanti sono i saltatori al momento nel mondo.
Nel 1984 Carl Boenisch compì uno dei salti più mediatici della storia, lanciandosi dalla parete Troll (Trollveggen) in Norvegia, con le televisioni di tutto il mondo a filmarlo. Non soddisfatto, il giorno dopo tornò in cima per compiere un altro salto molto più pericoloso da una parete adiacente. Il paracadute si aprì verso la roccia e lui morì. Jean, sua moglie, compì altri salti in sua memoria, per onorare lo spirito avventuriero del marito. Tuttora Jean racconta la loro storia e quella dei pionieristici primi voli. Per me sono persone illuminate che rimangono fedeli alle proprie idee, spesso contro il parere di tutti, senza farsi intimorire dai giudizi altrui. Veri pionieri. Così sono nate le più grandi invenzioni, così l’umanità può progredire: osando.
Stane Krajnc, appena adolescente, nell’allora Jugoslavia, guardando una foto su una rivista, si costruì il suo primo deltaplano. Sua madre lo aiutò cucendo i vari strati di tessuto e Stane decollò con il prototipo. Nel 1992 fondò la Atair e iniziò a costruire paracadute. Il primo dedicato al BASE jumping, lo chiamò Troll e lo consegnò al giovane Robert Pecnik, croato, per testarlo.
Robert saltò prima dall’aereo, poi dalle montagne e nel 2001 vinse la prima competizione di BASE jumping a Kuala Lampur. Per più di un decennio, Troll fu il paracadute più utilizzato al mondo per questi lanci.
Negli anni Novanta si fecero conoscere i siti di salto più celebri: il Monte Brento in Italia, Lauterbrunnen in Svizzera, Moab in Utah negli Stati Uniti, tutte le pareti norvegesi e molti altri. Nacque la Cjaa (Cliff Jumpers Association of America) e nel 1997 un libro dettò gli standard di sicurezza.
All’inizio degli anni Ottanta si cominciò a registrare gli incidenti mortali accaduti in questa disciplina. Oggi un sito riporta l’elenco degli incidenti, la BASE Fatality List. Lo scopo è imparare dagli errori altrui per sopravvivere. Io lo considero un importante spunto di riflessione.

per approfondire, ti consiglio la visione di questi video
Tratto dal mio libro, Volare le Montagne

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